giovedì 10 dicembre 2015

UNA MEMORABILE LEZIONE DI CITTADINANZA E COSTITUZIONE

Questo che riproduciamo è il Discorso sulla Costituzione che Piero Calamandrei tenne all'Umanitaria di Milano il 26 gennaio 1955.


" L’art. 34 dice: «I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Eh! E se non hanno mezzi?
Allora nella nostra costituzione c’è un articolo che è il più importante di tutta la costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi. Dice così:
«E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
È compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo.
Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell'art. primo – «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» – corrisponderà alla realtà.
Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto un’uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società.
E allora voi capite da questo che la nostra costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di un lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi!

È stato detto giustamente che le costituzioni sono delle polemiche, che negli articoli delle costituzioni c’è sempre, anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica, di solito, è una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime.

Se voi leggete la parte della costituzione che si riferisce ai rapporti civili e politici, ai diritti di libertà, voi sentirete continuamente la polemica contro quella che era la situazione prima della Repubblica, quando tutte queste libertà, che oggi sono elencate e riaffermate solennemente, erano sistematicamente disconosciute. Quindi, polemica nella parte dei diritti dell’uomo e del cittadino contro il passato.

Ma c’è una parte della nostra costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Perché quando l’art. 3 vi dice: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana» riconosce con questo che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli.

Dà un giudizio, la costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani.

Ma non è una costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una costituzione che apre le vie verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma è una costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società in cui può accadere che, anche quando ci sono, le libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche e dalla impossibilità per molti cittadini di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che, se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anch'essa contribuire al progresso della società. Quindi, polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente.

Però, vedete, la costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico che è – non qui, per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghe categorie di giovani – una malattia dei giovani.

«La politica è una brutta cosa», «che me ne importa della politica»: quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina, che qualcheduno di voi conoscerà, di quei due emigranti, due contadini, che traversavano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime e il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda a un marinaio: «Ma siamo in pericolo?», e questo dice: «Se continua questo mare, il bastimento tra mezz'ora affonda». Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno e dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare, tra mezz’ora il bastimento affonda!». Quello dice: «Che me ne importa, non è mica mio!». Questo è l’indifferentismo alla politica.

È così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che interessarsi di politica. E lo so anch'io! Il mondo è così bello, ci sono tante belle cose da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa.

Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent'anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai, e vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica.

La costituzione, vedete, è l’affermazione scritta in questi articoli, che dal punto di vista letterario non sono belli, ma è l’affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune, che se va a fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. È la carta della propria libertà, la carta per ciascuno di noi della propria dignità d’uomo.

Io mi ricordo le prime elezioni dopo la caduta del fascismo, il 2 giugno 1946: questo popolo che da 25 anni non aveva goduto le libertà civili e politiche, la prima volta che andò a votare dopo un periodo di orrori – il caos, la guerra civile, le lotte, le guerre, gli incendi. Ricordo – io ero a Firenze, lo stesso è capitato qui – queste file di gente disciplinata davanti alle sezioni, disciplinata e lieta perché avevano la sensazione di aver ritrovato la propria dignità, questo dare il voto, questo portare la propria opinione per contribuire a creare questa opinione della comunità, questo essere padroni di noi, del proprio paese, del nostro paese, della nostra patria, della nostra terra, disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del nostro paese.

Quindi, voi giovani alla costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica, rendersi conto – questa è una delle gioie della vita – rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in più, che siamo parte di un tutto, nei limiti dell’Italia e nel mondo.

Ora, vedete – io ho poco altro da dirvi –, in questa costituzione, di cui sentirete fare il commento nelle prossime conferenze, c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato. Tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie son tutti sfociati in questi articoli. E a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane.

Quando io leggo, nell'art. 2, «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale», o quando leggo, nell'art. 11, «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», la patria italiana in mezzo alle altre patrie, dico: ma questo è Mazzini, questa è la voce di Mazzini;
o quando io leggo, nell'art. 8, «tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge», ma questo è Cavour;
o quando io leggo, nell'art. 5, «la Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali», ma questo è Cattaneo;
o quando, nell'art. 52, io leggo, a proposito delle forze armate, «l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica», esercito di popolo, ma questo è Garibaldi;
e quando leggo, all'art. 27, «non è ammessa la pena di morte», ma questo, o studenti milanesi, è Beccaria. Grandi voci lontane, grandi nomi lontani.

Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti.
Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa costituzione!
Dietro a ogni articolo di questa costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta.

Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti.

Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione.

Piero Calamandrei



Piero Calamandrei (Firenze, 21 aprile 1889 - 27 settembre 1956) fu avvocato, giurista, uomo politico e scrittore.
Interventista, partecipò alla Prima guerra mondiale come ufficiale P, addetto alla propaganda, assistenza e vigilanza delle truppe. Nel dopoguerra fu vicino alle posizioni di Giovanni Amendola, Gaetano Salvemini e Carlo Rosselli. Collaborò al "Circolo di cultura" di Firenze, devastato dai fascisti il 31 dicembre 1924; fu un dirigente dell’Unione nazionale di Giovanni Amendola. Dopo il delitto Matteotti aderì alla società "Italia libera" e fu vicino al gruppo antifascista "Non mollare!". Nel 1925 sottoscrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce.
Avvocato affermato e professore ordinario di Procedura civile all'università di Firenze, al consolidarsi del regime Calamandrei si ritirò negli studi e nella professione, senza mai nascondere la propria ostilità nei confronti del fascismo e soprattutto del nazismo. Tuttavia, convinto dal ministro Dino Grandi, partecipò alla stesura del Codice di procedura civile che vide la luce nel 1942.
Ne 1942 fu tra i fondatori del Partito d’Azione. Il 26 luglio 1943 fu nominato Rettore dell'Università di Firenze e dopo l'8 settembre fu colpito da mandato di cattura. Rimase nascosto fino alla liberazione di Firenze, nell’estate del 1944, quando poté riprendere il suo mandato dal settembre 1944 fino all'ottobre 1947.
Dopo la Liberazione Calamandrei fu membro per il Partito d’Azione della Consulta Nazionale, della Assemblea Costituente, della Commissione dei Settantacinque incaricata di redigere il testo della Costituzione della Repubblica. Nel 1948 fu eletto deputato nelle liste di Unità socialista, poi confluì nel Partito socialdemocratico. Nel 1953 si pose all'opposizione dei governi centristi e contrastò il patto Atlantico e la “legge truffa”, dando vita con Ferruccio Parri, Arturo Jemolo e altri al raggruppamento Unità popolare.
Nel 1945 fondò, e diresse fino alla morte,"Il Ponte", che fu una delle riviste più vivaci e autorevoli del dopoguerra; diede così voce a molti di quegli esponenti di "terza forza" – laici, repubblicani, liberali, radicali, socialisti – che erano rimasti orfani del Partito d’Azione. "Il Ponte" fu lo strumento più incisivo della sua battaglia civile per la difesa della Repubblica e l’attuazione della Costituzione.

Il testo di Piero Calamandrei è tratto dal cd rom Il Ponte di Piero Calamandrei, allegato al volume omonimo curato da Marcello Rossi, Il Ponte Editore, Firenze 2005.