UNA
MEMORABILE LEZIONE DI CITTADINANZA E COSTITUZIONE
Questo
che riproduciamo è il Discorso
sulla Costituzione
che Piero Calamandrei tenne all'Umanitaria di Milano il 26 gennaio
1955.
"
L’art. 34 dice: «I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi,
hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Eh! E
se non hanno mezzi?
Allora
nella nostra costituzione c’è un articolo che è il più
importante di tutta la costituzione, il più impegnativo per noi che
siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete
l’avvenire davanti a voi. Dice così:
«E'
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e la eguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
È
compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo
della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta
retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini
dignità di uomo.
Soltanto
quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la
formula contenuta nell'art. primo – «L’Italia è una
Repubblica democratica fondata sul lavoro» – corrisponderà alla
realtà.
Perché
fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e
di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per
vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare
fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica
perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto,
in cui ci sia soltanto un’uguaglianza di diritto, è una democrazia
puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini
veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società,
di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze
spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo
cammino, a questo progresso continuo di tutta la società.
E allora voi capite da questo che la nostra
costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una
realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un
impegno di un lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere!
Quanto lavoro vi sta dinanzi!
È stato detto giustamente che le
costituzioni sono delle polemiche, che negli articoli delle
costituzioni c’è sempre, anche se dissimulata dalla formulazione
fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica, di solito,
è una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro
il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime.
Se voi leggete la parte della costituzione
che si riferisce ai rapporti civili e politici, ai diritti di
libertà, voi sentirete continuamente la polemica contro quella che
era la situazione prima della Repubblica, quando tutte queste
libertà, che oggi sono elencate e riaffermate solennemente, erano
sistematicamente disconosciute. Quindi, polemica nella parte dei
diritti dell’uomo e del cittadino contro il passato.
Ma c’è una parte della nostra
costituzione che è una polemica contro il presente, contro la
società presente. Perché quando l’art. 3 vi dice: «È compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale
che impediscono il pieno sviluppo della persona umana» riconosce con
questo che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna
rimuoverli.
Dà un giudizio, la costituzione, un
giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento
sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento
di legalità, di trasformazione graduale, che la costituzione ha
messo a disposizione dei cittadini italiani.
Ma non è una costituzione immobile che
abbia fissato un punto fermo, è una costituzione che apre le vie
verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per
rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che
sovverte violentemente, ma è una costituzione rinnovatrice,
progressiva, che mira alla trasformazione di questa società in cui
può accadere che, anche quando ci sono, le libertà giuridiche e
politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche e dalla
impossibilità per molti cittadini di essere persone e di accorgersi
che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che, se fosse
sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anch'essa contribuire al progresso della società. Quindi, polemica contro il
presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per
trasformare questa situazione presente.
Però, vedete, la costituzione non è una
macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La
costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove.
Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il
combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la
volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.
Per questo una delle offese che si fanno alla costituzione è
l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico che è –
non qui, per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghe
categorie di giovani – una malattia dei giovani.
«La politica è una brutta cosa», «che me
ne importa della politica»: quando sento fare questo discorso, mi
viene sempre in mente quella vecchia storiellina, che qualcheduno di
voi conoscerà, di quei due emigranti, due contadini, che
traversavano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi
contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si
accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime e il
piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda a un
marinaio: «Ma siamo in pericolo?», e questo dice: «Se continua
questo mare, il bastimento tra mezz'ora affonda». Allora lui corre
nella stiva a svegliare il compagno e dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se
continua questo mare, tra mezz’ora il bastimento affonda!». Quello
dice: «Che me ne importa, non è mica mio!». Questo è
l’indifferentismo alla politica.
È così bello, è così comodo: la libertà
c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che
interessarsi di politica. E lo so anch'io! Il mondo è così bello,
ci sono tante belle cose da vedere, da godere, oltre che occuparsi di
politica. La politica non è una piacevole cosa.
Però la libertà è come l’aria: ci si
accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente
quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno
sentito per vent'anni, e che io auguro a voi, giovani, di non
sentire mai, e vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso
di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le
condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare
mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare,
dando il proprio contributo alla vita politica.
La costituzione, vedete, è l’affermazione
scritta in questi articoli, che dal punto di vista letterario non
sono belli, ma è l’affermazione solenne della solidarietà
sociale, della solidarietà umana, della sorte comune, che se va a
fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. È la carta della
propria libertà, la carta per ciascuno di noi della propria dignità
d’uomo.
Io mi ricordo le prime elezioni dopo la
caduta del fascismo, il 2 giugno 1946: questo popolo che da 25 anni
non aveva goduto le libertà civili e politiche, la prima volta che
andò a votare dopo un periodo di orrori – il caos, la guerra
civile, le lotte, le guerre, gli incendi. Ricordo – io ero a
Firenze, lo stesso è capitato qui – queste file di gente
disciplinata davanti alle sezioni, disciplinata e lieta perché
avevano la sensazione di aver ritrovato la propria dignità, questo
dare il voto, questo portare la propria opinione per contribuire a
creare questa opinione della comunità, questo essere padroni di noi,
del proprio paese, del nostro paese, della nostra patria, della
nostra terra, disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del nostro
paese.
Quindi, voi giovani alla costituzione dovete
dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla
come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza
civica, rendersi conto – questa è una delle gioie della vita –
rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in
più, che siamo parte di un tutto, nei limiti dell’Italia e nel
mondo.
Ora, vedete – io ho poco altro da dirvi –,
in questa costituzione, di cui sentirete fare il commento nelle
prossime conferenze, c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il
nostro passato. Tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre
glorie son tutti sfociati in questi articoli. E a sapere intendere,
dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane.
Quando io leggo, nell'art. 2,
«l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale», o quando leggo, nell'art. 11, «l’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri
popoli», la patria italiana in mezzo alle altre patrie, dico: ma
questo è Mazzini, questa è la voce di Mazzini;
o quando io leggo, nell'art. 8, «tutte le
confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge», ma
questo è Cavour;
o quando io leggo, nell'art. 5, «la
Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie
locali», ma questo è Cattaneo;
o quando, nell'art. 52, io leggo, a
proposito delle forze armate, «l’ordinamento delle forze armate si
informa allo spirito democratico della Repubblica», esercito di
popolo, ma questo è Garibaldi;
e quando leggo, all'art. 27, «non è
ammessa la pena di morte», ma questo, o studenti milanesi, è
Beccaria. Grandi voci lontane, grandi nomi lontani.
Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti.
Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a
questa costituzione!
Dietro a ogni articolo di questa
costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti
combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi
di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le
strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita
perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa
carta.
Quindi, quando vi ho detto che questa è una
carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un
testamento di centomila morti.
Se voi volete andare in pellegrinaggio nel
luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove
caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei
campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per
riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col
pensiero perché lì è nata la nostra costituzione.
Piero Calamandrei
Piero
Calamandrei (Firenze, 21 aprile 1889 - 27 settembre 1956) fu
avvocato, giurista, uomo politico e scrittore.
Interventista,
partecipò alla Prima guerra mondiale come ufficiale P, addetto alla
propaganda, assistenza e vigilanza delle truppe. Nel dopoguerra fu
vicino alle posizioni di Giovanni Amendola, Gaetano Salvemini e Carlo
Rosselli. Collaborò al "Circolo di cultura" di Firenze,
devastato dai fascisti il 31 dicembre 1924; fu un dirigente
dell’Unione nazionale di Giovanni Amendola. Dopo il delitto
Matteotti aderì alla società "Italia libera" e fu vicino
al gruppo antifascista "Non mollare!". Nel 1925
sottoscrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti di
Benedetto Croce.
Avvocato
affermato e professore ordinario di Procedura civile all'università di Firenze, al consolidarsi del regime Calamandrei si ritirò negli
studi e nella professione, senza mai nascondere la propria ostilità
nei confronti del fascismo e soprattutto del nazismo. Tuttavia,
convinto dal ministro Dino Grandi, partecipò alla stesura del Codice
di procedura civile che vide la luce nel 1942.
Ne
1942 fu tra i fondatori del Partito d’Azione. Il 26 luglio 1943 fu
nominato Rettore dell'Università di Firenze e dopo l'8 settembre fu
colpito da mandato di cattura. Rimase nascosto fino alla liberazione
di Firenze, nell’estate del 1944, quando poté riprendere il suo
mandato dal settembre 1944 fino all'ottobre 1947.
Dopo
la Liberazione Calamandrei fu membro per il Partito d’Azione della
Consulta Nazionale, della Assemblea Costituente, della Commissione
dei Settantacinque incaricata di redigere il testo della Costituzione
della Repubblica. Nel 1948 fu eletto deputato nelle liste di Unità
socialista, poi confluì nel Partito socialdemocratico. Nel 1953 si
pose all'opposizione dei governi centristi e contrastò il patto
Atlantico e la “legge truffa”, dando vita con Ferruccio Parri,
Arturo Jemolo e altri al raggruppamento Unità popolare.
Nel
1945 fondò, e diresse fino alla morte,"Il Ponte", che fu
una delle riviste più vivaci e autorevoli del dopoguerra; diede così
voce a molti di quegli esponenti di "terza forza" –
laici, repubblicani, liberali, radicali, socialisti – che erano
rimasti orfani del Partito d’Azione. "Il Ponte" fu lo
strumento più incisivo della sua battaglia civile per la difesa
della Repubblica e l’attuazione della Costituzione.
Il
testo di Piero Calamandrei è tratto dal cd rom Il
Ponte di Piero Calamandrei,
allegato al volume omonimo curato da Marcello Rossi, Il Ponte
Editore, Firenze 2005.